Le residenze per anziani: tra passato e futuro/4

Giorgio Pavan, direttore dell’Istituto per Servizi di Ricovero e Assistenza agli Anziani di Treviso, la più grande IPAB pubblica del Veneto, con 850 ospiti e 750 addetti, nell’introduzione il prof. Marco Trabucchi invita a non dare uno sguardo solo localistico, perché in tutto il mondo è stata accusata questa fragilità dei centri di accoglienza delle persone anziane con multimorbilità.

Dobbiamo ammettere che nei primi giorni di questa vicenda c’era un’impressione non definita, una sorta di preventiva mitigazione dell’enfasi anche da parte di autorevoli scienziati ed esponenti del mondo sanitario, della serie “è poco di più di una semplice influenza”. Poi si è fatta strada una maggiore consapevolezza. Di fronte a un Nemico praticamente sconosciuto, sei obbligato a prendere decisioni al buio e solo a posteriori ti rendi conto di quanto fosse importante decidere e soprattutto rendere operative in modo rapido le decisioni stesse. Pertanto, un ritardo di 10 o 20 giorni nel prendere delle decisioni come la sospensione delle visite e la protezione degli operatori e degli ospiti, e soprattutto un ritardo nel metterle in pratica, ha potuto determinato effetti molto diversi nelle strutture. Pertanto gioco di squadra e rapidità esecutiva sono le chiavi del successo. Quando mi chiedono da cosa è dipeso il risultato, ripeto ogni volta che il 51% è da ascrivere all’organizzazione, il 49% a cause di concomitanze fortunate, che in alcuni casi non si sono verificate. Stante le dimensioni dell’ISRAA, contabilizziamo un solo contagio asintomatico risultato recentemente negativo al tampone.

Ripercorriamo le fasi iniziali, dalla fine di Febbraio della vostra governance, descrivendo anche i rapporti con l’ULSS di riferimento. Emerge sempre più chiaramente che una risposta di sistema in un certo qual modo si è riuscita a costruire, dopo alcune incertezze iniziali subito superate.

All’inizio, ricordiamolo ancora una volta, gli istituti deputati a tracciare le linee di indirizzo sono stati incerti, anche sull’uso dei DPI. L’incertezza più grande è stata “le mascherine non servono” e vanno usate solo in casi specifici. Al nostro interno, invece, pure con un relativa carenza dei dispositivi di protezione certificati, ci siamo autoprodotti oltre 2.000 mascherine, soluzione rivelatasi a nostro avviso fondamentale. Quando si è in guerra e finiscono le munizioni, anche le fionde diventano importanti. Dal 24 febbraio abbiamo sospeso tutte le visite dall’esterno, compresi i familiari ed i volontari, ma abbiamo mantenuto le professionalità sociali, molto preziose, come lo psicologo e l’educatore, facendo con loro incontri e gruppi rispettando il distanziamento appropriato. Un aspetto da approfondire è che la protezione degli ospiti ha avuto un effetto collaterale nella riduzione degli agenti patogeni anche non Covid. Fatto sta che nelle nostre strutture la mortalità è scesa del 20% rispetto allo stesso periodo dello scorso anno e in generale gli anziani si sono ammalati meno. Rispetto alle organizzazioni dei lavoratori ci sono stati ZERO problemi in virtù di una comunicazione costante a tutti i lavoratori “everyone” con un aggiornamento continuo e trasparente circa l’evolversi della situazione, gli accorgimenti da attuare. Le informazioni sono state date in contemporanea anche alle rappresentanze sindacali.

E rispetto all’ULSS 2?

Nella nostra ULSS sono attive 54 strutture per anziani, già prima di Covid esisteva un coordinamento dei direttori. Una pratica che ha fatto disegnare una prima cultura di sistema che è risultata preziosa sia per l’interlocuzione con l’ULSS per tutte le questioni come l’applicazione dell’accordo regionale, sia in particolare nell’emergenza Covid. Certo sono stati ridotti tutti i ricorsi all’ULSS in termini di ospedalizzazione – siamo ordinariamente allo 0,6% – che di visite specialistiche – praticamente azzerate. Il peggiore momento lo abbiamo passato nel tempo intercorso tra l’analisi sierologica e la verifica con il tampone. Mediamente, per tutte le strutture dell’ULSS 2 l’analisi sierologiche evidenziava un 6/7% di casi positivi. Sono stati tutti immediatamente isolati e ciò ha comportato un lavoro organizzativo importante ed una preoccupazione anche per gli anziani e i familiari, avvisati ovviamente dei fatti. L’esito dei tamponi, arrivato dopo 4/5 giorni, ha evidenziato nel caso dell’ISRAA ila totale negatività. Ma per tutto questo tempo siamo stati in ansia  in attesa anche del peggio. Ora, con la direttiva del segretario generale della sanità del 21 aprile impone la somministrazione dei tamponi per anziani e personale ogni venti giorni e l’analisi sierologica, di anziani e personale ogni dieci giorni. Francamente è una direttiva di difficilissima attuazione per oggettivi problemi pratici e organizzativi. Per quel che riguarda il personale, abbiamo avuto iniziali difficoltà in quanto l’ULSS procedeva all’assunzione di OSS molti dei quali erano dipendenti dei nostri centri di servizi. Abbiamo chiesto una mano all’ULSS che si è prodigata nel rallentare le assunzioni e nel predisporre delle liste di reclutamento proprie a disposizione dei centri di servizi. In ogni caso, i rapporti con l’ULSS sono ottimi, nel senso che gli obiettivi sono condivisi e lo sforzo di far funzionare il sistema c’è da entrambe le parti; se ci sono state difficoltà e dei disguidi sono dovuti alla complessità del problema, alle dimensioni delle organizzazioni, qualche volta alla lunghezza delle filiere.

Sia il prof. Trabucchi nel suo intervento che nell’intervista a Roberto Volpe emergono degli encomi espliciti al personale delle Residenze, apprezzamenti che finora non sono diventati patrimonio anche dell’agenda politica.

Condivido in toto questi encomi. Non sto qui a narrare i tanti episodi di piccolo eroismo quotidiano. Dopo la chiusura del 24 febbraio i famigliari ci attaccavano, ora che le cose sono andate bene ci osannano. C’è però stato, e va denunciato, un problema di aggressione mediatica molto forte, in particolare a livello nazionale, che ha incrementato lo stereotipo negativo nei confronti delle case di riposo. Di conseguenza si è elaborata nell’immaginario collettivo una classifica crudele e distorta: gli operatori ospedalieri erano gli “eroi” e quelli delle residenze per anziani gli “untori”. Invece, ripeto che con le chiusure alle visite, la riorganizzazione degli spazi per gestire il distanziamento e l’individuazione precoce dei contagi con l’immediato isolamento si è potuto traghettare indenni gli ospiti. Non vorrei però che passasse l’idea che l’impegno è stato solo dopo le cose sono andate bene. L’impegno degli operatori dove si sono verificati dei focolai è stato addirittura maggiore e in molti casi ci hanno rimesso personalmente sul piano della salute. Nella nostra provincia abbiamo avuto anche la peggiore delle sconfitte con la morte di due operatori sociosanitari. Ritornando al rapporto tra spedale e case di riposo, l’effetto stereotipo è paradossale perché il problema sembra essere iniziato proprio in ambito ospedaliero.

Quali lezioni si possono trarre a tuo avviso, per il futuro?

Il confronto con la Lombardia fornisce elementi importanti. Per chi dice che bisogna ulteriormente sanitarizzare le case di riposo perché oramai sono dei piccoli ospedali, penso sia un’idea sbagliata. Le RSA della Lombardia sono molto più sanitarizzate di quelle del Veneto, hanno addirittura la Direzione Sanitaria interna alla struttura. I risultati ci dicono cose diverse. Le Case di Riposo o le RSA, prima di essere “sanità” sono case, residenze ed è questo che deve emergere come primo elemento. Un luogo dove le persone abitano per tempi più o meno lunghi. La conicità fa rima con sanità, ma si declina con assistenza. Ciò deve portare anche ad un’idea diversa di salute dove deve prevalere il tema della qualità della vita e non della patologia, prospettiva classicamente ospedaliera. L’esperienza ha inoltre sottolineato l’importanza delle politiche territoriali: le nostre case di riposo sono punti di riferimento di un territorio integrato dove i servizi, facendo riferimento al distretto sociosanitario, ne sono una parte fondamentale per le politiche per l’invecchiamento. Il tutto assieme ai medici di medicina generale che operano nelle nostre residenze.
Se guardiamo al futuro, sapendo l’invecchiamento della popolazione incrementerà sino al 2050, sarebbe una follia farci trasportare dall’emozione del momento pensando di superare il modello delle strutture per anziani, come ad esempio suggeriscono gli amici della comunità di S. Egidio. Parliamo invece di come migliorarle, aprirle al territorio, riorganizzarle come comunità di cura che si interessa alla alle gravi patologie e cronicità. Per quanto mi riguarda penso che le residenze per anziani non autosufficienti sono un importante punto di riferimento del territorio con due caratteristiche fondamentali: hanno un’organizzazione di accoglienza H24, complementare e qualche volta persino alternativa all’ospedale. Ma sono anche il nodo centrale e una risorsa dell’organizzazione residenziale, semiresidenziale e territoriale dei servizi socio sanitari. I distretti socio sanitari sono la cornice, ma non possono gestire direttamente tutta la fenomenologia delle cronicità presente sempre in misura maggiore nel territorio.

Il disegno che prospetti da delle indicazioni specifiche molto precise anche per riprendere in mano la riforma delle IPAB, che qui in Veneto è in attesa almeno dall’approvazione della legge Turco, la 328 che è del 2000?

Sarebbe il momento buono per fare la riforma in Veneto. Questa consoliderebbe il sistema che ha funzionato anche in una prova durissima come l’emergenza. Non si tratta tanto di scegliere tra la forma “azienda pubblica” o “fondazione privata”, le due modalità possono convivere sotto un “tetto” comune di carattere normativo, di regolazione paritaria e di controllo dei parametri. Certo, dirigendo un’IPAB quello che chiedo ai regolatori del sistema è di poter competere con il privato profit e no-profit ad armi pari e non con lo svantaggio di una normativa che ci penalizza sul piano delle procedure e, ancor più importante, sul piano economico. All’orizzonte comunque aleggia uno spettro preoccupante: sono i grandi gruppi multinazionali del privato, che io chiamo del “profit-profit”, che beneficiano delle guerricciole intestine al nostro sistema e lasciano spesso dei vuoti dove possono inserirsi con facilità. Il Veneto ha mostrato maggiore resilienza anche rispetto all’Emilia Romagna e potrebbe consolidare un modello molto flessibile della filiera residenzialità, domiciliarità, sviluppo delle politiche di comunità, cohousing e un tessuto di strutture intermedie integrate. Insomma, l’invecchiamento è un processo ma ogni anziano invecchia a modo proprio e quindi le esigenze sono tante quante sono gli anziani. Non si tratta di dire viva le case di riposo o abbasso le case di riposo. Si tratta di iniziare un percorso articolato che riesce ad offrire la più grande pluralità di risposte possibili in modo tale che ognuno possa, in qualche modo, scegliere la propria strada. Dobbiamo però essere d’accordo sul fatto che non è importante dove una persona abita, ma come una persona sta.

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